Chi è il capobranco in una famiglia in cui vivano uno o più gatti? E come si fa ad imporsi o a farsi riconoscere come tale?

Se siete alla ricerca di una risposta a queste domande o se le risposte credete di averle già, fermate tutto, siete completamente fuori strada.

Più fuori strada di Wile E. Coyote durante nell’ennesimo inseguimento di Beep Beep, mentre ignora che da lì a poco precipiterà rovinosamente per una gola della Monument Valley.

Relazione uomo e gatto: incomprensioni ed equivoci

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Siamo stati erroneamente educati a ricercare un ordine gerarchico nel modo in cui le specie si rapportano con noi e tra loro.

In qualche modo, anche grazie all’influenza pedagogica della televisione, ci hanno abituati a pensare che gli animali che vivono accanto a noi siano alla perenne ricerca di un capo della comunità che detti regole, che stabilisca cosa si può fare e cosa no, chi ha diritto a mangiare e chi no, chi è il più forte e può godere di mille prerogative e chi deve sottomettersi con mitezza.

Lo schema del dominante e del sottomesso piace tanto, richiama un ordine militaresco a noi familiare, è estremamente rassicurante nella sua elementare semplicità: io comando, tu obbedisci senza discussioni.

Non richiede di conoscere, né di distinguere. E, sorprendentemente, ci hanno convinti che cani e gatti possano ingaggiare una lotta per la conquista del potere sfidandoci tra le pareti domestiche.

In tal modo si sono diffuse anche in rete informazioni totalmente fuorvianti a riguardo: c’è chi sostiene che per far capire a un gatto chi comanda bisogna coglierlo sul fatto e punirlo (generando ansia e stress); che bisogna insegnargli no secchi per imporgli disciplina (generando frustrazione e diffidenza); che se un gatto non copre le feci in cassetta o fa la pipì in giro ci sta sfidando (e se fosse sgradita la lettiera? O un problema di salute?); che le liti ingaggiate frequentemente con i suoi coinquilini sono dovute alla necessità di imporsi come capo-branco (e se fossero rapporti che si incrinano?).

Il problema delle informazioni fuorvianti è che generano equivoci e gli equivoci ci allontanano dalla comprensione e dalla risoluzione dei problemi. Non si cura un eritema con uno sciroppo per la tosse, insomma.

Il concetto di branco non vale per i gatti

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Il punto è che questo modo di concepire le relazioni sociali nel gatto e in generale nelle diverse specie è retrogrado e non rispecchia la realtà dei fatti.

Innanzitutto, ogni specie ha un suo peculiare modo di organizzarsi socialmente e non è detto che contempli la presenza di un unico individuo a capo di tutto e tutti.

Il concetto di capo-branco, poi, sottintende l’esistenza di un “branco”, ovvero di una formazione permanente e spontanea che si coordina in modo omogeneo.

La società felina non è né una in cui esiste un capo sopra le parti, né una in cui esistono branchi.

I gatti tendono a stabilire delle relazioni assolutamente paritarie con altri gatti e altri animali (uomo incluso) per cui sono sempre disposti a lottare per ciò di cui hanno bisogno, a legarsi a chi sentono affine ma anche a separarsene appena i rapporti si fanno conflittuali.

Non hanno capi e non sono gregari, sono dei predatori solitari, lo stare in compagnia ha a che fare con il loro gusto per il piacere, non con la sopravvivenza e, dunque, sono pronti a rinunciarvi appena necessario.

Inoltre, non vivono in branchi: le colonie sono generalmente il risultato di un assembramento spontaneo quando non imposto dall’uomo, dovuto alla concentrazione di una fonte alimentare.

La presenza di cibo, tuttavia, non crea un branco, non crea legami permanenti né stimola i frequentatori a perseguire un obiettivo condiviso.

Ognuno continua a pensare per sé, sebbene questo non escluda la nascita di amicizie e simpatie particolari, intime e durature.

Comprendere il comportamento dei gatti

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Vivere con un gatto, allora, e pensare di doversi imporre come capo di un fantomatico branco, significa perseguire delle fantasie tutte nostre, inculcate dalla pessima cultura zoofila che caratterizza il nostro tempo.

Già Konrad Lorenz aveva chiaramente definito la natura della relazione uomo-gatto in un suo famoso aforisma:

Il gatto è una creatura indipendente, che non si considera prigioniera dell’uomo e stabilisce con lui un rapporto alla pari.

Il nostro bisogno di pensarci all’interno di un sistema di comando-obbedienza, in realtà, nasconde la paura di non riuscire a controllare il comportamento dei gatti e in generale degli animali con cui viviamo.

È rassicurante farlo e ha a che fare con un’atavica diffidenza del diverso.

Vale con i cani, con i cavalli, con gli animali “da reddito”, con i domestici in generale e, quindi, anche con il gatto, il più sfuggente per antonomasia.

Mi confronto costantemente con questa paura che, spesso, è alla base dei problemi di convivenza che i proprietari riportano quando chiedono un mio intervento.

La domanda che lascio nell’etere è: davvero vogliamo che sia un’emozione come la paura a fare da sfondo alla relazione con un gatto, sapendo che da lui ci allontana anziché avvicinarci?